“Cancro: necessità di un approccio nuovo e sociale” Bologna, 1985

di A. Sacchetti
Relazione al Convegno «Cancro: gli incerti confini tra malattia e business», Policlinico S. Orsola, Bologna
23 Marzo 1985

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“La chimica dell’industria non è· la chimica della vita”

La conferenza internazionale sul significato dei carcinogeni industriali nell’ambiente di vita e di lavoro, organizzata dal Collegium Ramazzini, pur offrendo un ampio panorama della vertiginosa moltiplicazione dei rischi derivante dallo sviluppo industriale, sembra lasciare intendere che l’uomo, malgrado tutto, è in grado di governare con intelligenza l’ inevitabile disordine molecolare generato nella biosfera. Sarebbe dunque possibile e auspicabile un “social compromise” per convivere con la chimica dell’industria.
Si tratta di un tentativo di sostenere, con l’autorevole avallo di tanti scienziati, un potere economico industriale che sta ineluttabilmente provocando, per le leggi della termodinamica, la degradazione congiunta dell’ambiente e degli organismi viventi.
I verdi dell’Università Popolare di Romagna rilevano che la soluzione dei drammatici problemi posti da tale degradazione, dal cancro e dalle altre malattie degenerative, viene dilazionata all’infinito se non si ha il coraggio e l’onestà di ammettere che “la chimica dell’industria non è la chimica della vita” e che tra le due non si stringono compromessi all’interno delle strutture biologiche.
L’allegata relazione a un recente convegno tenuto a Bologna sul cancro delinea l’unica alternativa valida per la comprensione di questi problemi di fondo e mette a nudo i limiti intrinseci nell’approccio scientifico tradizionale.
Non si tratta soltanto di salvare i boschi, i fiumi, il mare, le specie in estinzione. E’ in gioco la nostra stessa salute, la nostra vita.

Università Verde di Bologna
Università Popolare di Romagna
Piazza Martiri. 14 – Lugo
C.I.P.

E’ la prima volta, se non erro, che in un convegno sul cancro l’esposizione dell’argomento viene affidata a un igienista. Nella mia qualità politicamente indipendente, interpreto la scelta come una svolta fondamentale dell’approccio al problema, considerato non più ”specialistico-oncologico” ma espressione di un rapporto profondamente alterato tra l’uomo e il suo ambiente fisico, economico, sociale.
Nei paesi industrializzati e in quelli affamati del terzo mondo, dove, per motivi diversi ma interconnessi, la degenerazione del rapporto ha raggiunto dimensioni patologiche, incidono malattie degradative che, come il cancro, sono praticamente inesistenti tra gli animali selvatici e nei popoli primitivi in armonico equilibrio col proprio habitat. L’analisi sociologica di questi processi morbosi è dunque non solo legittima, bensì indispensabile.
Poiché tale analisi sarà oggetto anche di altri interventi, concentrerò la mia relazione sull’antinomia essenziale, di cui non si è ancora acquisita la dovuta consapevolezza: gli stessi presupposti culturali della civiltà industriale sono intrinsecamente inconciliabili con una conseguente difesa della vita e della salute.
Nei paesi cosiddetti avanzati è la cultura meccanicistica, funzionale allo sviluppo dell’industria, che impedisce di comprendere adeguatamente i fenomeni biologici. Sì che, malgrado i suoi brillanti successi, la stessa indagine scientifica che dovrebbe sconfiggere il cancro finisce indirettamente per sostenere l’apparato produttivo che lo diffonde, alimentando 1’illusione di un impossibile miracolo tecnologico risolutivo.
La ricerca biologica, anche con le più fini tecniche analitiche di cui può giovarsi a livello micro-morfologico, ultrastrutturale, bio-chimico, genetico, molecolare, funzionale, è tuttora ancorata al metodo galileiano, valido nell’ambito delle relazioni deterministiche proprie della fisica classica.
Eccezionali risultati sono stati raggiunti. La conoscenza del codice genetico e la possibilità di identificare la struttura molecolare di interi segmenti del DNA, cioè di cominciare a decifrare l’informazione vincolata in ogni essere vivente, dischiude larghi e stimolanti orizzonti, con profonde ripercussioni eugeniche e mediche.
L’ampiezza e la profondità dell’analisi, spinta fino alle frontiere della biogenesi, consente oggi di ricondurre la vita a un fenomeno unitario non solo sotto il profilo storico filogenetico, ma anche nei modelli funzionali di base di ogni organismo. Sappiamo che tutti gli esseri viventi racchiudono negli acidi nucleici l’informazione indispensabile alla riproduzione, alla sintesi delle macromo1ecole biologiche, al coordinamento sincronico e diacronico delle attività metaboliche; tutti polimerizzano acidi nucleici formati dagli stessi cinque nucleotidi, proteine con gli stessi amminoacidi (poco più di una ventina tra i quasi 200 esistenti in natura). Tutti utilizzano l’adenosintrifosfato quale fonte energetica immediata e impiegano proteine come enzimi per catalizzare la miriade di reazioni chimiche in cui, istante per istante, realizzano la propria identità.
E soltanto 27 elementi chimici, meno di un terzo di quelli conosciuti, entrano fisiologicamente a far parte della vita sul pianeta.
Dovrebbe quindi essere chiara, innanzi tutto, l’assurdità di una lotta chimica biocida contro specie concorrenti, fondata su veleni che interferiscono con meccanismi elementari fondamentali delle cellule (di ogni cellula). Se, per es., il methyl-benzimidazol-2-ylcarbamate (MBC, prodotto di degradazione degli antiparassitari Benomyl e Thiophanate metile, riscontrato nella totalità della frutta analizzata durante il triennio 1978-80 dal Presidio Multizonale di Prevenzione di Ferrara) blocca la sintesi degli acidi nucleici, il rischio potenziale riguarderà molte forme di vita, in rapporto con la concentrazione sullo specifico bersaglio enzimatico. Se ditiocarbammati come il Mancozeb (sparso per uso agricolo con l’elicottero nelle regioni padane a più alta densità di popolazione) inibiscono i gruppi sulfidrilici indispensabili al funzionamento di numerosi enzimi, il danno sarà ancora una volta dilatato alla collettività compresa nell’area di dispersione delle particelle alla deriva, attenuato solo dalla diluizione scalare del veleno nello spazio e nel tempo. Diluizione che, all’interno di una realtà ambientale unitaria, ove tutto è interconnesso, avviene nel mutevole vortice di migliaia di altre sostanze tossiche provenienti da camini, ciminiere, tubi di scappamento, dissipazioni civili e industriali.
L’insufficiente sensibilità verso la degradazione antropica dell’ambiente non è da attribuire solo alla subordinazione di ogni altro valore alla ragione produttiva. E’ dovuta principalmente alle carenze di una cultura scientifica fondata sull’analisi di singoli rapporti causali, incapace di ricondurre a sintesi le astrazioni, prima fra tutte quella che distacca la vita dall’habitat, fino a considerare teoricamente possibile la disintegrazione totale fra l’umanità e la biosfera e una futura evoluzione in artificiose condizioni extraterrestri. A più di quattro secoli dalla rivoluzione copernicana l’uomo non si ritiene più soddisfatto di abitare nel centro dell’universo ma pretende addirittura la libera determinazione del proprio ambiente e della collocazione cosmica.
Non molto diversa, come vedremo, è la pretesa di capire la vita e di risolvere i problemi del cancro e delle malattie degenerative esclusivamente con l’ausilio della chimica e della fisica classica o dell’indagine epidemiologica: strumenti preziosi e insostituibili di analisi, ma inadeguati a una sintesi olistica dei fenomeni.
Una strada nuova ed estremamente fertile alla penetrazione conoscitiva di tali problemi è stata tracciata dal· premio Nobel Ilya Prigogine e dalla sua scuola approfondendo la teoria termodinamica dei sistemi aperti (che scambiano con l’ambiente sia materia, sia energia).
E’ noto che in un sistema chiuso e termicamente isolato i dislivelli energetici vanno spontaneamente annullandosi verso un equilibrio stabile, raggiunto il quale i processi si arrestano, l’entropia tocca il valore massimo, non accade più nulla. E’ la morte del sistema. Analogamente un sistema macroscopico complesso, isolato, tende a degradarsi verso lo stato più amorfo, disordinato, di massima probabilità. In tali condizioni di isolamento 1’autoorganizzazione di strutture ordinate è impossibile. Ma sistemi chiusi e isolati (preclusi a ogni attività creativa) sono praticamente estranei alla biosfera, dove l’equilibrio stabile non esiste e la regola è invece lo scambio continuo di materia e di energia, l’eterno alternarsi di strutture che nascono e si dissolvono, in un permanente travaglio morfogenetico.
Con felice intuizione Prigogine si è dedicato allo studio dei sistemi aperti e, in particolare di quelli mantenuti·(grazie a un vincolo energetico) lontani dall’equilibrio termodinamico, come sono tutti i sistemi biologici e gli altri che più di frequente è dato osservare nella natura. In questi sistemi possono apparire, quando vi siano meccanismi di interazione non lineari, nuovi tipi di organizzazione spontanea definiti da Prigogine “strutture dissipative” perché originate dalla continua dissipazione dell’energia ricevuta.
Un esempio abiotico elementare è dato dalla cosiddetta “instabilità di Bénard”. Scaldando un liquido omogeneamente da sotto, esso entrerà dapprima in un regime di non equilibrio lineare, determinato dal trasferimento di calore per conduzione. Ma, raggiunto un certo gradiente di temperatura, compariranno improvvisamente celle di convezione formate da una macroscopica corrente ascensionale di molecole. Sebbene, nella realtà, si verifichino sempre piccole fluttuazioni destinate a essere riassorbite, è solo al di là di un punto critico che l’energia di agitazione termica molecolare viene in parte trasferita alle correnti macroscopiche di convezione, le quali rappresentano una fluttuazione gigante, stabilizzata dal flusso continuo di energia. Sappiamo tutti che a un certo punto il fenomeno si manifesterà, ma impredicibile ne è il momento esatto come pure la forma precisa che le correnti ordinate assumeranno.
Anche gli organismi viventi sono sistemi termodinamici aperti, vincolati alla dissipazione costante di energia, a una catena continua di reazioni chimiche non lineari (attivate o inibite dall’azione sequenziale di enzimi specifici) e a fenomeni di trasporto (come il passaggio di sostanze attraverso membrane selettive). L’escrezione dei cataboliti concorre a mantenere l’organismo in condizioni di stabilità dinamica, cioè di apparente stazionarietà (così come può apparire stabile la fiamma di un gas emesso uniformemente da un ugello, quando non siano rilevabili fluttuazioni al contorno).
Mentre i sistemi isolati sono regolati, in prossimità dell’equilibrio termodinamico, dal principio d’ordine di Boltzmann, e quindi da un determinismo statistico (in quanto tendono comunque verso lo stato più probabile, di massima entropia), le strutture dissipative sono governate da un principio completamente diverso, che Prigogine definisce “ordine mediante fluttuazioni”.
Fluttuazioni sono inevitabili in tutti i sistemi macroscopici complessi, costituiti di un grandissimo numero di unità con interazioni deboli, a corta portata, come a ciascun livello dell’ordine biologico: intracellulare, sovra cellulare, sociale. Il prodursi di fluttuazioni è in questi sistemi un fenomeno necessitato ma essenzialmente probabilistico: l’elemento aleatorio, il caso. La risposta del sistema è viceversa deterministica in prossimità del regime stazionario, quando le fluttuazioni possono essere attenuate e riassorbite. Ma, giunto a una soglia critica, il sistema diviene instabile ed evolve in maniera stocastica: può accadere che la brusca amplificazione di una fluttuazione (per esempio da nuove interazioni ambientali o da meccanismi di feed-back) dia luogo a uno stato macroscopico nuovo, impredicibile come la fluttuazione e le amplificazioni che lo hanno originato. (Ovviamente deterministica è la risposta del sistema oltre certi limiti, quando interazioni distruttive riportano verso il dominio della fisica classica: l’effetto di un colpo al cuore è per la vita di un animale del tutto paragonabile a quello della chiusura del rubinetto nei riguardi di un flusso di gas acceso).
La plasticità del fenomeno vitale non è dunque aliena alle leggi fisiche e appare comprensibile nella particolare angolazione termodinamica di Prigogine. Non di meno è certamente irriducibile, nella sua interezza, ai principi deterministici della fisica classica, ai modelli semplicistici e meccanicistici che tendono a isolare l’oggetto della ricerca scientifica dall’infinita complessità delle interazioni ambientali. Un cristallo, osserva Prigogine, è una struttura di equilibrio termodinamico che non richiede alcun flusso di energia per mantenersi: ma una struttura dissipativa, centro di organizzazione permanente, di metamorfosi, di adattamento, capace di creare i suoi stessi confini e di ordinare il proprio spazio in funzione del regime dissipativo, non può esistere né essere compresa avulsa dal mondo esterno. Isolata da esso scompare.
L’organismo vivente è un trasformatore di materia e di energia ma anche, a differenza dei trasformatori costruiti dall’uomo, il prodotto stesso della corrente chemioenergetica che l’attraversa. Il che spiega da una parte la continuità filogenetica e dall’altra l’assoluta diversità di ogni essere, il suo ininterrotto divenire, sì che il soggetto di oggi è diverso da quello di ieri e, in ogni istante, da quello di prima.
E’ evidente pertanto il limite invalicabile di una scienza ontologica tesa a individuare le cause prime del cancro in alterazioni strutturali e funzionali sempre più minute all’interno dell’organismo, con i medesimi criteri deterministici con cui la fisica insegue vanamente entro l’atomo la dimensione ultima della realtà, 1’entità infinitesima primaria alla base di tutto il mondo micro e macroscopico, che dovrebbe permettere di capire matematicamente la logica fondamentale della natura.
Si è giunti a identificare l’origine latente del “cancro nei cancer genes, o oncogeni, presenti sia in virus cancerogeni, sia (in forma geneticamente repressa) nelle normali cellule umane; in diversi casi si è perfino decifrata la sequenza nucleotidica di tali geni e quella amminoacidica delle proteine da essi codificate. Il cancro sarebbe così programmato nel DNA. Ma la ruota degli interrogativi gira su se stessa: perché, a un certo punto, l’oncogene viene attivato e scatena l’anarchia della regolazione genetica? Donde proviene e da che cosa è amplificata la fluttuazione che sfocia nel nuovo stato dissipativo incontrollato, degradante rapidamente verso il massimo disordine somatico, la morte e, quindi, l’equilibrio termodinamico con l’esterno, la dissoluzione dell’essere nell’anonimato fisico-chimico che lo circonda? La cultura meccanicistica, che induce a riguardare l’organismo vivente come una macchina, non consente una valida integrazione del binomio uomo-ambiente, né una comprensione adeguata delle strutture biologiche.
Se la nostra stessa esistenza è sorretta dal flusso in entrata di materia – energia, è ovvio che modificazioni quali-quantitative di tale flusso nelle componenti energetiche e molecolari, biotiche e abiotiche, non possono non produrre fluttuazioni, seppure microscopiche, all’interno della “struttura dissipativa”. Ogni atomo di piombo che, liberato dei precedenti legami, reagisce con zolfo proteico o sulfidrilico, ovvero con fosforo nucleotidico o nucleosidico, produrrà un danno puntiforme. Ma analoghe lesioni puntiformi saranno determinate da un’infinità di sostanze organiche e inorganiche, capaci di reagire con molecole biologiche alterandone la funzione. Funzione che, nelle macromolecole vitali, è strettamente legata non solo alla loro composizione chimica, sebbene anche alla conformazione tridimensionale.
Il flusso in entrata negli esseri viventi è oggi così alterato che ogni giorno in ciascuno di noi miliardi di polimeri biologici vengono strutturalmente deformati dall’interazione con gli inquinanti. Ed è questa, non altra, la causa delle malattie degenerative, che io preferisco definire “degradative” perché originate dalla degradazione continua dell’ambiente esterno e, quindi, di quello interno all’organismo.
Perciò l’aterosclerosi, non rilevabile tra gli animali selvatici e tra popolazioni allo stato tribale – come quelle studiate da S. Rosen e da D.P. Burkitt – inizia nell’uomo dei paesi avanzati già all’infanzia e colpisce gli allevamenti zootecnici intensivi, dove le bestie non hanno certo il tempo di invecchiare. L’incremento ematico del colesterolo è esso pure un effetto, non la causa prima di tale degradazione metabolica. Anche il dilagare del cancro nelle regioni più industrializzate e chimicizzate è dovuto alla sempre più profonda alterazione del flusso chemioenergetico in entrata nel trasformatore biologico e alla conseguente deformazione di strutture – come il DNA – garanti della custodia e della trasmissione dell’informazione “vincolata”, cioè dell’ordine somatico e dell’omeostasi.
Le molecole registrate dal Chemical Abstracts Service americano erano oltre 6 milioni nel 1983 (2 milioni di più rispetto al 1977) e averne sottoposto alcune migliaia ai test sperimentali di mutagenesi o cancerogenesi – nella maggior parte dei casi con risultati ritenuti non definitivi – non costituisce un sostanziale passo avanti rispetto a otto anni fa. In Italia abbiamo ricercatori d’avanguardia, che all’epidemiologia oncologica e all’identificazione dei cancerogeni chimici hanno offerto contributi di eccezionale rilievo. Essi sono personalmente meritevoli della massima stima: il loro lavoro va confortato di risorse adeguate. Ma (a parte il fatto che anche di sostanze delle quali si è chiaramente evidenziato il potere oncogeno, come per es. il benzene, il cloruro di vinile, l’asbesto, il cromo, il nickel, continua indisturbato l’impiego su vastissima scala), affidare la vittoria sul cancro all’individuazione dei singoli cancerogeni mentre questi rapidamente si moltiplicano, interagiscono, danno luogo a composti nuovi e a effetti biologici imprevedibili, significa dilazionare senza fine la soluzione del problema.
Nei confronti dei fenomeni biologici, che per 1’instabile equilibrio sono estremamente sensibili alla sterminata molteplicità delle interazioni ambientali, il laboratorio offre conoscenza imperfetta per definizione, ingannevole nella misura in cui artificiosi, mutilati sono i rapporti con il mondo reale. D’altra parte è impossibile sceverare, nell’inestricabile intreccio fisico, chimico e biologico dell’habitat, gli effetti teorici a lungo termine di ogni sostanza o fonte energetica. L’epidemiologia statistica può fornirci indicazioni sulle tendenze di fondo, su alcune condizioni complesse o correlazioni specifiche ma, più aumenta il disordine chimico e fisico dell’ambiente, più diviene ardua, approssimativa, l’analisi particolareggiata dei rapporti causali.
Il livello del piombo è aumentato di centinaia di volte, in soli due secoli, perfino nei ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide (e si ritiene che di almeno 200 volte sia cresciuta la piomboemia nelle regioni dove maggiore è la dissipazione del metallo).
Analogo può stimarsi il più recente incremento ambientale e somatico dell’asbesto e di altri minerali carcinogeni, mentre molte decine di migliaia di nuove molecole tossiche, sintetizzate dall’uomo negli ultimi sessant’anni, invadono la biosfera e il nostro organismo. DDT cancerogeno circola nel sangue dei neonati e ricerche eseguite nel 1981-82 dimostrano che, dopo sei mesi di allattamento materno, la sua concentrazione ematica può innalzarsi notevolmente. Ftalati, solventi clorurati, metalli pesanti, idrocarburi e tutta una serie di sostanze xeniobiotiche scompaginano l’organizzazione microscopica delle cellule e dei tessuti. La lista dei composti pericolosi emessi dai motori Diesel si allunga continuamente e alcuni di essi, come il dinitropirene, hanno meritato l’appellativo di “supermutageni”. L’intensità del campo elettromagnetico da cui siamo oggi investiti nella banda di frequenza delle radioonde e microonde supera spesso di miliardi di volte quella del fondo naturale, alterando gli equilibri ionici di membrana, i potenziali d’azione nei circuiti neuronici, l’assetto elettronico dei polimeri biologici. E le manipolazioni chemioenergetiche iatrogeniche contribuiscono a denaturare sempre più la fisiologica composizione del flusso in entrata nel trasformatore biologico.
In questa situazione diviene ancora più assurda la pretesa di quantificare determinate correlazioni e di stabilire standards di accettabilità di singole sostanze chimiche, radiazioni o altre forme di energia non fisiologiche dal punto di vista qualitativo o quantitativo. Correlazioni isolate non esistono nella realtà: sono un’astrazione tipica della nostra attività mentale. L’equilibrio dinamico di una struttura dissipativa è condizionato dalla globalità del flusso chemioenergetico che l’attraversa. E proprio dall’estrema complessità delle interazioni globali discende l’assoluta unicità di ogni organismo vivente. “Una struttura prodotta da una successione di fluttuazioni amplificate non può essere compresa che in riferimento al suo passato”, dice Prigogine. “Nessuna descrizione del suo stato fisico-chimico in un dato istante può dar conto del suo funzionamento: e questo passato, tessuto da eventi imprevedibili, deve essere considerato unico e non riproducibile”.
Ciascuno si trova in un momento diverso della propria parabola vita1e: diversi sono (oltre al corredo genico, identico solo nei gemelli monozigotici) lo stato di degradazione interna, la funzionalità dei singoli organi, le potenzialità enzimatiche e reattive. E generalmente dissimili sono anche le condizioni al contorno. Perciò è imprevedibile la risposta soggettiva a variazioni minime di singoli parametri del flusso in entrata.
Il fatto è che non esistono sostanze inerti, energie indifferenti per un essere vivente. Ogni molecola del flusso in entrata comporta comunque un lavoro per essere utilizzata o trasferita, demolita, coniugata, eliminata. Del pari, qualsiasi tipo di energia assorbita comporta un’analoga attività di riequilibrio omeostatico. Le fluttuazioni all’interno di un organismo nascono e vengono amplificate da un’infinità di fattori chimici, fisici, biologici, di cui sarebbe vano pretendere di fotografare staticamente un ruolo specifico.
Si è detto che il passaggio irreversibile a nuovi stati macroscopici, nelle strutture dissipative, presuppone sempre il superamento di soglie critiche, oltre le quali le fluttuazioni non possano essere riassorbite. E’ noto che anche nei complessi meccanismi della cancerogenesi vi sono, entro dati limiti, stadi di reversibilità. Certe lesioni del DNA sono enzimaticamente riparate attraverso l’escissione e la ripolimerizzazione dei tratti deformati: la cancerizzazione avviene soltanto se la continuità o l’intensità dell’insulto non può più essere compensata dall’attività riparativa, in rapporto anche ai tempi di replicazione della cellula. Analogamente, a un livello successivo, le cellule “trasformate” possono essere bloccate o distrutte dal sistema di sorveglianza immunologica fino a quando l’efficienza di questo (in permanenza impegnato su più fronti) sia tale da prevalere sull’entità delle cancerizzazioni.
Pertanto, nei riguardi del cancro, solo a questi due livelli, cellulare e sistemico, può essere ragionevolmente riferito il concetto quantitativo di soglia, non certo ai valori dei parametri chimici o fisici all’esterno dell’organismo. Ma a 1ivello biologico la soglia non è mai fissa, risultando in ogni istante dalla complessa interazione di fattori lesivi, protettivi, riparativi. E il concetto stesso di soglia, per una struttura in equilibrio dinamico come quella dissipativa, implica che al punto di transizione, cioè di massima instabilità, possa essere proprio l’evento minimo (privo di significato generale e forse anche, talora, di apprezzabilità strumentale) a far scattare il cambiamento di stato.
L’imperante cultura meccanicistica alimenta l’illusione che anche il cancro trovi origine in una o più cause specifiche e possa quindi essere sconfitto con interventi deterministici di carattere tecnologico. Il sostanziale insuccesso nella prevenzione di questa e di altre malattie degradative deriva proprio dall’insufficienza dell’approccio tradizionale.
Gli studi di Prigogine sembrano rendere intelligibile alla fisica la “genesi storica delle strutture attive”, il divenire della natura e dell’uomo, la loro creatività, in una concezione nuova, lontana da entrambe quelle classiche (meccanicistica e vitalistica) che hanno dominato, seppure in una ricca varietà di interpretazioni, fin dai tempi di Democrito e di Aristotele.
Oltre che il superamento di millenari steccati culturali, la termodinamica dei sistemi dissipativi consente un approccio corretto, integrato alle altre forme di degradazione organica biologica e alla più generale necrosi dell’ecosfera provocata dallo sviluppo industriale.
Gli esseri viventi rappresentano 1’unico esempio di programmazione effettiva e globale, la più alta espressione dell’ordine sulla terra, e, fra essi, l’uomo è l’organismo massimamente differenziato e ordinato. All’interno delle sue singole cellule (e sono ben 50.000-100.000 miliardi) avvengono, ogni minuto secondo, miglia di reazioni chimiche in un disegno complessivo geneticamente coordinato. Ma l’autoregolazione vitale può sostenersi sol tanto assorbendo continuamente ordine dall’ambiente, sotto forma di un’idonea composizione quali-quantitativa del flusso chemioenergetico in entrata. Più tale composizione è corrotta, impropria rispetto alle esigenze stabilite e alla filogenesi, più il rifornimento d’ordine si riduce e aumenta il disordine nell’organismo.
La termodinamica, con le leggi della degradazione irreversibile di materia ed energia, rende conto scientificamente dell’ineluttabile disordine molecolare indotto dai giganteschi trasferimenti chemioenergetici attuati dall’industria nella biosfera. Il cancro non è che espressione somatica del disordine giunto a compromettere punti chiave dell’informazione citologica.
Una considerazione così elementare da apparire banale, scontata, e che tuttavia ha la forza insuperabile della trasparenza scientifica e il pregio di rispettare la globalità delle interconnessioni tra l’organismo e l’ambiente, in aderenza ai principi generali che presiedono al divenire, all’organizzazione della vita e alla sua disorganizzazione verso la morte.
E’ noto che la stessa sostanza chimica, o lo stesso inquinante fisico, può provocare patologie degradative diverse e che la medesima malattia degradativa, per es. il cancro, può essere originata da una vasta gamma di sostanze o di forme diverse di energia, con il concorso di condizioni promoventi aspecifiche. L’interpretazione termodinamica permette di recuperare ad un tempo la dimensione quantitativa complessiva dei fattori lesivi, l’aleatorietà e 1’aspecificità delle interazioni amplificatrici delle fluttuazioni: elementi che inevitabilmente sfuggono all’analisi clinica e tecnologica.
Le deduzioni sono ovvie. Non ci si può illudere di ripristinare l’ordine nell’organismo se non viene garantito l’ordine fisiologico nel flusso chemioenergetico in entrata. E poiché, per le leggi della termodinamica, ogni lavorazione comporta, in maniera irreversibile, degradazione di energia e dissipazione di materia, è chiaro che la composizione fisiologica del flusso vitale potrà essere in una certa misura ripristinata solo abbassando il livello dissipativo del sistema sociale, fino a reinserire al massimo possibile le attività produttive entro i cicli biogeochimici naturali.
La chimica dell’industria non è la chimica della vita e tra le due non si stabiliscono compromessi nelle macromolecole biologiche geneticamente programmate.

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