“L’impossibilità”

di Aldo Sacchetti
Articolo pubblicato su La Perdonanza n.57
2003

Nel XX secolo la scienza separatrice ha prodotto la distinzione irreversibile socialmente più grave e pericolosa: quella tra la folla immensa degli incompetenti e i presunti competenti della tecnoscienza, in grado di misurare i rischi e di imporre ovunque il proprio paradigma interpretativo della realtà. La tecnologia nucleare consegnava all’Industria processi di trasmutazione dei legami più interni all’atomo, provocando – tra l’altro – la formazione di radionuclidi non esistenti in natura assolutamente incompatibili con la vita. Alcuni di questi rimangono radioattivi per migliaia o addirittura milioni di anni. È in ogni caso impossibile impedire l’emissione dì radiazioni lesive dai radionuclidi durante tutto il periodo del loro decadimento. Tra i prodotti indesiderati della tecnologia nucleare, quelli con più lungo decadimento debbono essere mantenuti in sicurezza, separati dalla vita, per tempi che vanno oltre ogni ragionevole orizzonte storico. Abbiamo scatenato un demone che non è più possibile controllare con certezza.
Paradossalmente proprio Enrico Fermi – come scrive il fisico John Barrow – poneva in dubbio l’esistenza di civiltà extraterrestri “avanzate”, perché esse “non potrebbero sopravvivere a problemi interni, malattie, esaurimento delle materie prime, degenerazione irreversibile dell’ambiente per causa dell’inquinamento”.
“Oggi la conoscenza fondamentale è che esistono limiti alle teorie scientifiche, anche quando sono corrette”, dice Barrow. E ricorda che il famoso fisiologo, filosofo e storico della scienza Emil Du Bois-Reymond (dopo aver lanciato nel 1848 il manifesto dell’ambizioso programma riduzionista, inteso a studiare il vivente secondo i principi della fisica per risolvere tutti i grandi problemi ancora oscuri, come l’origine dei processi psichici) nel 1872 tracciò rigorosamente i limiti insuperabili della conoscenza scientifica. All’ “ignoramus”, premesso ventiquattro anni prima, aggiunse un perentorio “ignorabimus”. Ma già da due secoli Pascal aveva descritto con straordinaria efficacia la dinamica storica di quel limite: la conoscenza umana è una sfera che, più si dilata, più accresce la superficie di contatto con l’ignoto.
La domanda adesso è un’altra: l’abisso scavato tra la realtà e la sua descrizione riduzionista è situazione gnoseologica o non piuttosto un incontrollabile rischio per l’umanità e la biosfera? Lo sviluppo apparentemente inarrestabile della potenza tecnica contrasta con i limiti della conoscenza ed è causa di crescente disordine naturale e sociale. L’uomo, prima ancora di divenire “sapiens”, aveva trovato nello sviluppo delle proprie capacità tecniche manuali la chiave di un circolo virtuoso tra evoluzione culturale e sopravvivenza. L’invenzione dell’agricoltura (c’è bisogno di aggiungere “naturale”?) fu l’evento destinato a rimanere il vincolo imprescindibile della sua simbiosi terrena. Quel vincolo che fisica e chimica industriale stanno corrompendo alla radice.
Una svolta decisiva fu determinata, nel XVIII secolo, dall’applicazione della seconda macchina a vapore di Watt alla coltivazione delle miniere inglesi di carbone. Era l’inizio del circolo perverso contro natura all’origine dello sviluppo industriale senza limiti: più veniva consumata energia tecnogenica, più si otteneva energia per le macchine in forma di combustibile. Ma l’energia tecnogenica, indipendentemente dalla qualità e derivazione (da combustibili, pannelli solari, movimenti del mare, eolica, elettrochimica all’idrogeno o quant’altro) non ha nulla in comune con quella fisiologica dei processi cellulari, organizzata in sostanza viva a livello quantistico secondo un modello archetipale che ha reso coerente tutta la biosfera. Modello autosostenibile perché trasforma con intelligenza in vita il flusso ininterrotto di energia solare e ricicla sempre la stessa trentina di elementi chimici, meno di un terzo di quelli presenti sul pianeta. Non è invece possibile il consumo massiccio di energia tecnogenica (soprattutto se la si converte in moto) senza provocare dissipazioni fisiche e chimiche incoerenti con la fisiologia della vita.
Nelle minuscole dimensioni submillimetriche di una cellula viva si danno, in pochi secondi, complesse reazioni chimiche che in laboratorio richiederebbero giorni o settimane di lavoro. Nessun chimico si proporrebbe la sintesi simultanea di un amminoacido, uno zucchero, un lipide partendo dagli stessi precursori nel medesimo recipiente. Eppure nella cellula migliaia di enzimi catalizzano contestualmente – e nella giusta proporzione – tutte le trasformazioni metaboliche necessarie senza generare disordine, secondo un principio di ineguagliabile economia ed efficienza.
È impossibile, per l’organismo vivente, scindere il legame chimico carbonio-fluoro, oggi annodato dalla chimica industriale e dispensato perfino attraverso i medicinali. In un milligrammo di fluoxetina (uno dei farmaci più usati per i disturbi neuropsichici, anche giovanili) i legami indegradabili sono miliardi di miliardi. Non è possibile la degradazione metabolica dei legami multipli carbonio-cloro e carbonio-bromo, dispersi dall’industria in tutta la biosfera con grave danno non solo per la fascia stratosferica di ozono ma anche per l’autorganizzazione della vita. Legami organici persistenti, più in generale, sono in gioco nelle dilaganti disfunzioni sessuali umane e animali (dall’ermafroditismo dei giovani orsi bianchi del polo nord alla femminilizzazione dei maschi tra le pantere della Florida), come pure nella formazione ed espansione di nuclei istopatologici di degenerazione irreversibile, tipici di malattie come l’Alzheimer o la BSE (la cosiddetta “mucca pazza”).
Si confida in nuove tecnologie per sanare i guasti che lo stesso sviluppo tecnologico ha provocato. Ma nessuna tecnica potrà rimediare in tempi umani accettabili al riscaldamento complessivo del pianeta, al buco dell’ozono stratosferico, all’accelerata estinzione di specie, allo squilibrio omeostatico del clima, della natura e alle conseguenti alterazioni indotte nella salute dell’uomo, degli animali, delle piante, con inevitabili riflessi economici e sociali.
È impossibile recuperare in tempi brevi l’inquinamento molecolare degli oceani, dove i rifiuti disaggregati e persistenti del progresso si disperdono in uno strato profondo appena un centinaio di metri: occorreranno poi migliaia di anni perché l’acqua di quello strato si diluisca nella massa idrica totale (pari a quasi quattrocento volte quella di tutta l’atmosfera). È impossibile correggere i fenomeni di subsidenza provocati dalla forsennata estrazione di idrocarburi (a miliardi di metri cubi/anno) dai loro depositi sotterranei: la velocità di abbassamento del suolo lungo il litorale emiliano-romagnolo ha raggiunto in alcune zone, tra il 1984 e il 1993, punte di 3 cm./anno (e alla fine degli anni ’50, nel ferrarese, di diecine di cm.).
Non è fisiologicamente ed economicamente possibile la folle avventura spaziale. “L’umanità astronauta – scrive Michel Serres – fluttua nello spazio come un feto nel liquido amniotico, legata alla placenta della madre Terra da tutte le vie nutritive”. Solo una mente malata può concepire la rimozione di ogni vincolo, l’instaurazione di traffici e sistemi satellitari di comunicazione che minaccerebbero anche, nel tempo, i sottili equilibri chimici ed elettromagnetici dell’atmosfera.
Non è possibile considerare la doppia elica del DNA come sequenza lineare di miliardi di caratteri, manipolabili nello stesso modo con cui le nanotecnologie uniscono singoli atomi di silicio per costruire un chip dell’informatica elettronica. Le singole lettere del DNA sono configurazioni instabili, autorganizzate in una trentina di atomi diversi (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo). Ogni giorno ciascuna cellula del nostro corpo perde fisiologicamente più di 5.000 lettere dell’informazione genetica, subito restaurate dagli enzimi riparatori. Lo squilibrio tra l’intensità delle cause lesive e le capacità autoriparative, sia nel rapporto DNA-proteine, sia nella fondamentale cooperazione simbiotica all’interno e all’esterno delle cellule e degli organismi, è la causa determinante delle patologie degenerative che affliggono con crescente intensità l’uomo, la società, la biosfera.
I tenui “legami idrogeno” che uniscono ciascuna delle 4 lettere del doppio filamento alla lettera complementare del filamento accanto vibrano con una frequenza di miliardi di volte al secondo. Quelle lettere sono simboli che, di là dai limiti dell’analizzabile, esprimono l’immensità delle relazioni nascoste. Il DNA è come lo strumento a corde di un sistema interamente sincronico (e sinfonico) che modula senza posa, nello spazio/tempo, il “cantico delle creature”. La genetica, fondata sull’informazione chimica delle strutture viventi e attratta da quella piccola frazione del DNA (nell’uomo meno del 10%) che codifica messaggi per la formazione di proteine, trascura ciò che non sembra indicare alcunché di manipolabile. La scienza separatrice, nata per dominare, disdegna l’approccio olistico allo stupefacente autocoordinamento del vivente. È palese il rischio di ridurre la genetica a strumento, meccanico e sordo, per intervenire su una memoria ereditaria di cui ignoriamo – e sempre ignoreremo – l’immateriale complessità.
Gli organismi biologici, con le loro cellule e i loro legami, sono esseri totalmente integrati. Nella concezione fisica tradizionale, gli atomi che si trovano alla superficie delle singole parti considerate interagiscono con gli atomi immediatamente adiacenti, nel contesto di una generale interazione a corto raggio in tutta la massa corporea. Ma l’elettrodinamica quantistica “conferma che vi sono anche comunicazioni immediate a lungo raggio, all’interno come all’esterno degli organismi. La scienza scopre oggi che, se l’ordine sotteso dell’eco biologia ha una dimensione globale, finalistica ma non deterministica, il disordine introdotto in scala industriale a livello genetico e quantico non può che avere ripercussioni generali sull’omeostasi biologica, neurologica e sociale in tutto il pianeta.
Nel 1492, quando scoprì l’America, l’occidente non riconobbe gli indigeni come fratelli. La strada era aperta a quell’intreccio magmatico di razzismo, colonialismo, sfruttamento perverso della biosfera e dell’uomo stesso che oggi, con gli spaventosi mezzi di distruzione di massa (atomici, chimici, elettromagnetici, biologici) resi disponibili ovunque dalla tecnoscienza, non è più possibile controllare e dominare nel quadro di un’economia competitiva.
La scienza, che cinque secoli fa – dettando le leggi matematiche della nuova fisica celeste – determinò uno scisma apparentemente incolmabile con la metafisica, ha ora un solo dovere: porsi a servizio della coscienza per salvare insieme la dignità dell’uomo e la creaturalità del pianeta. La scoperta dell’ordine implicato nella biologia quantistica, inesplicabile nella sua storica unità e nell’immateriale complessità, fa sorgere una consapevolezza nuova dell’impossibilità di escludere la metafisica dall’approccio scientifico al vivente.
Nello sconforto della generale alienazione sembra talora che il “Deus absconditus” non si riveli più. Ma è la nostra mente, desertificata dal mito della tecnica e dello sviluppo materiale, che non sa più interrogarlo. Mai come oggi lo splendore francescano della frugalità solidale, unica garanzia di equità, di perdono, di pace, ha illuminato la via – forse troppo alta per essere fedelmente seguita ma non per questo meno valida – verso un futuro sostenibile.

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